Questa domenica di aprile, alle 6,30 circa, si è aperta con la lettura di questo articolo di Paolo Panni pubblicato sul sito www.oglioponews.it
Una partenza mattiniera di riflessione e lettura, seguita da una passeggiata e da una nutriente ed energetica colazione.
Mi auguro possa lasciare in voi le stesse emozioni e riflessioni.
Buona domenica.
L’eremita e il deserto pasquale del Po
Il giorno di Pasqua ho camminato, ancora una volta, tra le vie deserte e desolate del paesello. Mi sono fermato ad osservare, a lungo, i tavoli dei locali vuoti con le sedie accatastate.
Un giovane intervistatore, un giorno, rivolgendosi a un vecchio monaco chiese: “cosa fate tutto il giorno rinchiusi tra le mura del vostro convento?”. Ambizioso com’era sperava di pubblicare, a breve, un ampio e interessante servizio dedicato agli ipotetici segreti della clausura e dei sacri corridoi. Il religioso, molto composto, gli rispose: “cadiamo e ci rialziamo tutti i giorni”. L’intervistatore restò allibito, un tantino deluso di fronte a una risposta così sintetica e disse di non aver capito. Sperando in una spiegazione più esaustiva e ricca di particolari. “Lei ha capito benissimo” gli replicò invece il vecchio frate avvolto nel suo saio color ebano. Si riferiva, evidentemente, alla vita che ciascuno di noi, a ben pensarci, è chiamato a percorrere tutti i giorni, anche fuori dalle mura della clausura. La vita, per sua natura, è fatta di cadute di fronte alle quali sei sempre chiamato a rialzarti. Lì si cela la sfida, con tutte le mete da raggiungere.
E’ una filosofia che, in tempi come quelli che stiamo vivendo, dovrebbe essere alla base della nostra quotidianità, di testimoni di una storia che, a modo suo, ciascuno di noi, da protagonista o da comparsa, sta vivendo e scrivendo, tutti i giorni. Ma purtroppo, oggi, a prevalere sono lo sconforto, la rabbia, la sensazione di impotenza, la rassegnazione. Sono e resto convinto del fatto che la pandemia più grande, tutt’altro che lontana, sarà quella dei depressi, degli esauriti, dei falliti. In estrema sintesi, quella dei caduti. Che non finiranno, con i loro nomi, sulla lapide di qualche monumento, come purtroppo non ci finiranno i tanti, troppi morti, che da più di un anno a questa parte, stiamo piangendo. Da questa ulteriore pandemia sarà ancor più difficile uscire, e non ci sarà vaccino che tenga.
Il giorno di Pasqua ho camminato, ancora una volta, tra le vie deserte e desolate del paesello. Mi sono fermato ad osservare, a lungo, i tavoli dei locali vuoti con le sedie accatastate; le luci spente dei negozi e delle trattorie con le serrande abbassate; le panchine deserte, quasi a voler attendere un improbabile, improvviso ospite. Il silenzio rotto solo dal miagolio di un gatto solitario che ha attraversato sconsolato la piazza, dal canto lontano di un gallo intento a richiamare le sue galline, dal suono della campana della chiesa intenta a scandire il tempo. Sembrava di essere in un paese dal quale tutti erano fuggiti, all’improvviso. La stessa identica immagine di un anno fa, ma con sensazioni diverse. Perché se soltanto un po’ di mesi fa si facevano largo smarrimento e stupore di fronte a un fatto che, forse, nessuno avrebbe ipotizzato di dover vivere, oggi a sollevarsi, inevitabilmente, sono la stanchezza, lo sconforto e la rabbia. Nessuno ha più esposto quelle assurde lenzuolate con scritto “Andrà tutto bene” (irrispettose, a dir poco, dei tanti morti che ci sono stati e delle loro famiglie) e il parroco, alla messa di Pasqua, ha detto, senza girarci tanto attorno, che “è da più di un anno che siamo in Quaresima”.
Come dargli torto? Il borgo è in silenzio, le serrande abbassate e coperte di ruggine; dalle finestre delle case sembrano scendere lacrime di autentico dolore. Siamo caduti, tutti. La lezione del saggio monaco, stavolta, fatica a far breccia. Avremo la forza di risollevarci?
Raggiungo, un passo dopo l’altro, il mio fiume. Lui sì che ne ha viste di pandemie e di guerre, e da sempre accompagna, nel bene e nel male, le storie e le vicende dei nostri villaggi, di qua e di là dalla riva. Sulle sue sponde sono incise e scolpite storie di vita quotidiana, di fatiche, di gioie e di dolori, di lavoro e di quotidianità. Un grande libro di storia, narrata tra lanche e golene, pioppeti e spiaggioni. Anche lui, in magra quando dovrebbe essere in piena, e in piena quando dovrebbe essere in magra, nel suo languido e lento scorrere sembra osservare il destino dei suoi paesi. Sì, il pensiero va esattamente ad un anno fa. Quando gli incravattati dal deretano piatto, sostenevano che sarebbe stata questione di qualche settimana e poi sarebbero tornati gli abbracci e le strette di mano, come sempre. Un pronostico avventato, del tutto sbagliato, che oggi sa di presa in giro. Del resto sono gli stessi che, ad inizio 2020, in televisione e sui giornali ripetevano che in Italia non sarebbe arrivato nulla, non ci sarebbero stati problemi e invitavano a non diffondere allarmismi. Salvo poi smentirsi poche settimane dopo, chiudendo in fretta e furia tutto e tutti: ma ormai i buoi erano scappati dalla stalla, come si dice da queste parti. Non contenti, gli stessi incravattati dal deretano piatto, e pelato, un po’ di mesi più tardi, in autunno, chiedevano a tutti nuovi sacrifici “per salvare il Natale”. Che, alla fine, non è stato salvato. Poi, con una ripetitività disarmante e nauseabonda, dopo essere riusciti a litigare tra di loro per spartirsi qualche poltrona di velluto rosso, di nuovo hanno chiesto sacrifici natalizi, e da capodanno, per poterci riabbracciare tutti per Pasqua. Che, a sua vola, non è stata salvata e, quindi, si chiedono di nuovo sacrifici raccontando, e sperando di far credere, che siamo “all’ultimo miglio” come qualcuno ha osato incredibilmente dire, senza pensare alle tante previsioni che, una dopo l’altra, ha inesorabilmente e costantemente toppato in questo anno. Sono ben lontani i tempi di quell’idea di democrazia coltivata da Sandro Pertini, il presidente della Repubblica più amato di sempre, strettamente legata al concetto di governo a servizio del popolo per il bene suo e della Nazione. Ma tant’è.
Come al monaco è stato chiesto cosa fanno i religiosi in un monastero tutto il giorno, sarebbe bello se venisse chiesto ai politici cosa fanno loro nella vita e nelle attività di tutti i giorni. Alla prova dei fatti, se fossero obiettivi ed onesti, senza distinzioni di destra, sinistra e centro, dovrebbero dire “cadiamo e raccontiamo balle tutti i giorni, pensando che il popolo continui a berle e, se possiamo, lo tartassiamo mandandolo in rovina”. Del resto ho vissuto sulla mia stessa pelle una grottesca vicenda, accaduta a non molti chilometri dal Po, dove un cane è stato multato per aver abbaiato (sì, proprio così) e, da due anni, la vicenda, finita nelle aule di un tribunale, è irrisolta grazie all’ennesimo esempio di accanimento politico verso la gente e, in questo caso, anche verso un cane al quale non si riesce a far capire che dopo le 18 è vietato abbaiare.
A noi, gente del fiume approdati, forse per caso, nel terzo millennio, i barcaioli, gli scariolanti, i carrettieri, i boscaioli, i contadini e le massaie del Po, hanno lasciato una preziosa eredità: non in vil denaro (quello lo lasciamo agli incravattati dal deretano piatto e pelato) ma fatta di quei valori di prudenza, sapienza, onestà e dignità che ti devono entrare nelle vene e nella testa, non nel portafogli. Quei valori che non si imparano sulle poltrone di velluto rosso, e nemmeno sistemandosi il cappio al collo (benpensanti e moralisti leggano sembra “cravatte” e non facciano strani pensieri), ma stando semplicemente sulle sedie di legno impagliate dei nostri nonni. Che ci hanno sempre invitato a dire la verità nuda e cruda, bella o brutta che sia, evitando illusioni e false promesse. Cose che i politici di oggi, di ogni ordine e grado, non hanno imparato. Anche per questo ho da tempo deciso, e lo ho ripetutamente scritto, che non andrò mai più a votare. Non per una inutile protesta, ma per la consapevolezza che non esistano più persone che abbiano realmente a cuore il bene comune, perché più interessate al loro personalissimo profitto. Vorrei solo non ricevere mai più biglietti, foglietti e libretti propagandistici da parte degli incravattati: li considero un disturbo, finirebbero tutti nella spazzatura senza essere nemmeno sfogliati. Ma chiedere di non essere disturbato sembra una richiesta fuori dai tempi.
Nel secondo deserto pasquale della nostra semplice storia di gente di fiume, lasciandomi alle spalle la terra natale, al calar del sole sono entrato nel cortile di una vecchia casa colonica, dove da decenni non vive nessuno. Dalle imposte sgangherate, invece delle lacrime, ho visto scendere ancora il sudore dei contadini che l’hanno abitata; dal portone in legno attraversato e scolpito dalle crepe si è dipanato come un sorriso di incoraggiamento. Sotto al vecchio fienile, proprio una di quelle semplici sedie di legno impagliate mi ha offerto un comodo rifugio: ero sicuro di non cadere. Il sole si è abbassato dietro ai pioppi e la melodia del fiume in viaggio verso il mare è rimasta a farmi compagnia. I campanoni di Zibello e San Daniele Po si sono “parlati” attraverso i dolci rintocchi serali dell’ “Ave Maria” e, nel deserto pasquale, hanno dato una pacca sulle spalle delle nostre umili, laboriose comunità. Per prepararci a un domani costellato di incertezze e di timori, ma fatto di quei valori fatti di prudenza, pazienza, sapienza e caparbietà che saranno sempre la linfa vitale dei nostri borghi, baciati dal Po. Dove, forse, scopriremo che, come diceva, in modo profetico, il maestro Giuseppe Verdi, tornando all’antico scriveremo e costruiremo il progresso.